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L'ECONOMIA D'ORO ISRAELIANA
Postato il Martedì, 17 luglio @ 19:00:00 EDT di marcoc |
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DEI PROF SHIMSHON BICHLER E JONATHAN NITZAN
Global Research
L’enigma
Molti osservatori dello scenario israeliano sono rimasti perplessi di
fronte all’evidente resistenza del paese alle cattive notizie. I
recenti titoli di testa sembrano uniformemente terribili. Mentre il
paese si sta ancora riprendendo da una guerra rovinata, se non
umiliante, con Hezbollah, i territori palestinesi scivolano ancora nel
fermento e gli esperti parlano di un ennesimo conflitto con la Siria.
Il coinvolgimento degli USA in Iraq e in Afghanistan si sta accrescendo
e in molti parlano di un imminente attacco sull’Iran con gravi
conseguenze regionali. I politici e i pubblici ufficiali israeliani -
dal presidente al primo ministro, dal capo di stato maggiore al
ministro della giustizia, sono stati trascinati nella corruzione e in
altri scandali. I coraggiosi media capitalistici presentano
consuetamente gli ufficiali del governo come truffatori incompetenti e
il parlamento Israeliano come un’istituzione di nessuna rilevanza.
E tuttavia nessuna di queste notizie sembra avere alcun impatto sull’economia. Che va alla grande.
I
commentatori locali hanno tentato di dare una spiegazione a questo
enigma per oltre un anno. Quasi tutti parlano dell’effetto della
globalizzazione liberale. La lunga lotta per una finanza solida,
dicono, sta finalmente portando i suoi frutti. Il governo è stato
costretto ad arginare le proprie spese e il conseguente emergere di
surplus finanziari aiuta adesso a liberare le scarse risorse per un uso
privato più produttivo. Parallelamente, il libero mercato e la
liberalizzazione del capitale attraggono gli imprenditori globali,
consentendo al tempo stesso ai capitalisti israeliani di mettersi in
contatto con il resto del mondo. Il Laissez faire è arrivato in terra
santa: la follia politica del paese e l’instabilità della sicurezza
nazionale non importano più per l’ ”economia”. [1]
Gli analisti stranieri offrono altre spiegazioni. Per Thomas Friedman
del New York Times, il segreto sta nel genio israeliano. [2]
L’immaginazione, l’innovazione e la flessibilità dei cittadini di
questo paese, incoraggiati dall’istruzione superiore e dal sostegno del
governo per l’imprenditoria, aiuterebbero Israele ad adattarsi e a
rispondere ad un mondo che cambia di continuo. La prosperità secondo
Friedman, viene dalla testa.
Il critico sociale Naomi Klein snobba Friedman [3]. Il rialzo del
mercato azionario israeliano e i tassi di crescita paragonabili a
quelli cinesi, controbatte, non sono fondati sul capitale umano, bensì
sull’economia bellica del paese che sta mutando. Le calamità militari,
il terrorismo e il contro-terrorismo presentano un ambiente ideale per
lo sviluppo e la sperimentazione di armi di oppressione. Israele è
diventato un grande laboratorio per tali armi. Sviluppa e sperimenta
l’hardware e il software della violenza - contro i propri vicini arabi
e contro la popolazione palestinese - per poi venderlo al resto del
mondo. La prosperità economica cresce in tempo di crisi politica.
Il contesto storico
Queste esplicazioni più o meno plausibili, cadono nella stessa
trappola: credere ai media capitalistici. Si affrettano a spiegare come
l’economia israeliana sia in crescita senza mai fermarsi e chiedersi se
lo è veramente.
Certo, il secondo quesito è meno entusiasmante del primo. Ma dato che
tutti sembrano dare per scontato il “boom”, abbiamo pensato che fosse
una buona idea controllare i fatti. Per maggior sicurezza.
Allora, l’economia israeliana è in crescita?
Chiaramente, la risposta non può essere trovata sulla base del
rendimento dell’anno scorso o del trimestre più recente. Israele e la
regione sono in fermento da decadi, quindi anche il comportamento
dell’economia deve essere visto in un contesto storico. Facciamo
proprio questo nella figura 1.
[Il
PIL procapite viene misurato in dollari costanti Geary-Khamis del 1990
che rappresentano la Parità di Potere di Acquisto (PPA). I dati per il
2004-2005 sono misurati in dollari USA costanti del 2000 e sono
congiunti alle osservazioni precedenti. FONTE: Angus Maddison, World
Population, GDP and per Capita GDP, 1-2003 AD; World Development
Indicators.] Il grafico è incentrato sul PIL procapite,
espresso in prezzi costanti ed aggiustato per la Parità di Potere di
Acquisto (PPA). Tale misurazione viene costruita con diversi passi.
Prima di tutto, gli statistici stimano di anno in anno, il prodotto
interno lordo del paese o PIL, espresso in prezzi prevalenti in un dato
anno di base. Questa stima - che gli economisti chiamano PIL “reale” -
rappresenta presumibilmente la “quantità ” aggregata dei nuovi beni e
servizi prodotti (contrariamente al PIL “nominale”, che rappresenta sia
i prezzi che le quantità di produzione).
Poi, gli statistici aggiustano il PIL “reale” affinché sia conforme ad
uno standard internazionale di Parità di Potere di Acquisto (PPA). Dato
che i vari paesi producono e consumano diverse “ceste” di beni e
servizi, i loro “reali” livelli del PIL non sono facilmente
comparabili. Il fine della conversione per la Parità di Potere di
Acquisto (PPA) è di consentire questo raffronto. Per ottenere tale
conversione gli statistici fanno l’ipotesi che tutti i paesi producano
la stessa cesta internazionale. Attribuiscono poi a ciascun paese il
livello di PIL “reale” che potrebbe raggiungere se dovesse produrre non
i propri beni e servizi, ma quelli compresi nella cesta internazionale.
Infine, gli statistici dividono il PIL “reale” del paese in termini di
PPA, per la grandezza della sua popolazione. Il risultato è il PIL
procapite in prezzi costanti espressi in parità di potere di acquisto.
Gli economisti impiegano quest’ultima misurazione per valutare la
produttività media e il tenore di vita medio di ciascun paese - sia
nell’arco del tempo che a raffronto con altri paesi.
Prima di guardare ai dati, dovremmo notare che queste misurazioni
convenzionali della “produttività ” e del “tenore di vita” sono
notevolmente problematiche, sia concettualmente che empiricamente. E lo
stesso vale per l’importanza che viene comunemente data agli “aggregati
monetari” e ai “valori medi” - un’importanza che serve ad ignorare e a
nascondere la distribzione e la struttura portante dell’economia
politica. Ciononostante ci limitiamo in questa sede a seguire le comuni
pratiche, in modo da poter contestare il credo comune con i suoi stessi
termini.
La figura 1 mette a confronto il rendimento pro capite di Israele con
altri tre paesi: la Cina, l’India e gli Stati Uniti. Facciamo questo
tracciando tre serie, ciascuna delle quali esprime il rapporto tra il
PIL pro capite di Israele e il PIL pro capite di uno di questi tre
paesi.
La visione d’insieme indica la metà degli anni ‘70 come un chiaro punto
di svolta. Durante il suo cosiddetto periodo “socialista”, Israele ha
sovraprodotto. Dopo l’ascesa del Likud del 1977 e l’arrivo del
“liberalismo” Israele è rimasto indietro.
Le due serie inferiori tracciate con scala sull’asse di sinistra,
seguono il rendimento di Israele in relazione alla Cina e all’India.
Possiamo vedere che il PIL procapite di Israele all’inizio degli anni
’50 era all’incirca sei volte quello della Cina ed è raddoppiato,
arrivando fino a dodici volte, entro la metà degli anni ’70.
Da quel punto in poi, tuttavia, il processo si è invertito. Il PIL
procapite della Cina è andato alle stelle, Israele ha indugiato e il
rapporto tra i due paesi è caduto precipitosamente. Nel 2005, il PIL
procapite israeliano era solo 3 volte quello cinese, che rappresenta
una riduzione di quattro volte dalla metà degli anni ’70.
Uno sviluppo simile seppure meno marcato, è evidente dal
raffronto con l’India. Anche qui, Israele ha superato in resa fino alla
metà degli anni ’70, per poi invertire il processo.
Visto da questa prospettiva a lungo termine, il recente “boom” di
Israele - presumendo che ve ne sia uno - è un rialzo in un contesto a
lungo termine di declino. Nonostante le sue tre decadi di
liberalizzazione, genio imprenditoriale e sperimentazione militare,
Israele non ha saputo raggiungere tassi di crescita nemmeno vicini a
quelli della Cina o dell’India.
Certo, si potrebbe ragionevolmente contestare questo raffronto.
Ovviamente, è fuorviante mettere a confronto Israele - una società
capitalistica matura - con “mercati emergenti” come la Cina e l’India.
Ma dopotutto, Israele non ha dato grandi risultati neanche in relazione
ai paesi capitalistici maturi. La serie tracciata in alto nella figura
1 con scala sull’asse di destra, mostra il rapporto tra il PIL
procapite di Israele e quello degli Stati Uniti.
Come nel caso della Cina e dell’India, anche qui Israele ha superato
gli Stati Uniti fino alla metà degli anni ‘70, ed ha avuto un calo
della produttività da quel momento in poi. Il suo PIL procapite è sceso
dal 62 percento di quello degli Stati Uniti nel 1975 al 57 per cento
nel 2005.
Dove sono andati tutti i capitalisti?
Così , non c’è niente di davvero miracoloso riguardo all’economia
israeliana. Ma dopotutto, puntare l’attenzione sulla “economia di
Israele” è fuorviante in sé.
Le misurazioni dei tassi di crescita nazionali, del PIL procapite,
della disoccupazione ed altro possono essere di grande importanza per
la maggior parte degli Israeliani. Ma sono irrilevanti per i
capitalisti israeliani.
Ci sono due motivi principali a giustificazione di questa asserzione.
Prima di tutto e più in generale, i capitalisti sono interessati non
alla crescita della produzione “materiale” e del cosiddetto capitale
“reale”, ma all’espansione dei loro capitali finanziari. E per quanto
strano possa sembrare, il “reale” mondo del rendimento economico e il
mondo “nominale” della finanza sono spesso non collegati e talvolta si
muovono persino in direzioni opposte. [4]
In secondo luogo e specificamente per il nostro scopo in questa sede,
c’è la questione dell’identità . Le misurazioni economiche non
importano per i capitalisti israeliani semplicemente perché sono
rimasti molti pochi capitalisti “israeliani”.
Dall’inizio degli anni ‘90 in poi l’apertura d’Israele sia all’esterno
che all’interno, ha creato un enorme flusso di capitale in entrambe le
direzioni. Imprenditori globali, corporazioni transnazionali, oligarchi
russi e riciclatori di denaro sporco si sono tutti raccolti in Israele.
Hanno acquistato qualsiasi cosa di valore - azioni e obbligazioni,
intere società e le migliori proprietà immobiliari, squadre sportive e
politici locali. Parallelamente, i capitalisti nazionali si sono
diversificati all’estero: hanno preso i profitti dei propri
investimenti locali e li hanno investiti fuori da Israele.
Il risultato netto di questo processo bidirezionale è stata la
scomparsa non solo della classe di capitalisti “israeliana”, ma anche
delle società “israeliane”.
Al giorno d’oggi tutti i grandi capitalisti che vivono in Israele
(almeno per parte del tempo), hanno investimenti globali che spesso
mettono in ombra i loro patrimoni all’interno d’ Israele propriamente.
E praticamente tutte le aziende principali basate in Israele sono
transnazionali - per operazioni, proprietà , o entrambe le cose.
In altre parole, la questione non è che l’accumulazione israeliana sia
diventata indifferente alla politica israeliana, ma piuttosto che
l’accumulazione israeliana sia diventata sempre meno degli “Israeliani”.
[L’indice
TASE (Tel Aviv Stock Exchange) è basato sulla congiunzione dei dati
dell’FMI (fino a dicembre 1976), dell’indice generale (da gennaio 1977
a marzo 1993) e dell’indice Mishtanim (da aprile in poi). Sia il TASE
che il NASDAQ sono espressi in dollari USA. La serie mostra le
osservazioni mensili. La linea retta che attraversa le osservazioni è
una regressione lineare. FONTE: FMI e NASDAQ attraverso Global Insight;
TASE.]
La conseguenza di questa transnazionalizzazione di proprietà è
illustrata nella figura 2. Il grafico correla i tassi di crescita
annuali della Borsa di Tel Aviv (TASE) e del NASDAQ (con dati
fondamentali mensili denominati in $ USA). Ciascun punto della serie
rappresenta la correlazione durante il quinquennio precedente, con
valori cha vanno da un minimo di –1 (che indica che i tassi di crescita
dei due mercati azionari si muovono in direzioni esattamente opposte),
a un punto mediano di 0 (che denota che i due mercati non sono
correlati) e fino ad un massimo di +1 (quando i tassi di crescita si
muovono esattamente nella stessa direzione).
La tendenza che emerge dal grafico è priva di ambiguità. Durante gli
anni ’80, i due mercati erano pressappoco indipendenti. La correlazione
tra di essi era bassa e spesso negativa. Ma con l’andare del tempo e in
particolare a partire dall’inizio degli anni ’90, la
transnazionalizzazione del capitale e dei capitalisti “israeliani” ha
reso tale correlazione sempre più stretta.
Quando abbiamo tracciato per la prima volta questa relazione nel 2001
ill coefficiente di correlazione si avvicinava allo 0.7. Già dal 2006
aveva raggiunto lo 0.92. [5] In linguaggio non tecnico quest’ultimo
numero suggerisce che, nel periodo dal 2001 al 2006 il 92 percento
delle variazioni del TASE potevano essere “spiegate” con le variazioni
del NASDAQ (sarebbe difficile dire il contrario). E appunto, poiché le
due classi di beni hanno in comune proprietari simili, hanno fonti di
guadagno simili e si trovano negli stessi pool di liquidità, non c’ è
veramente ragione alcuna per cui non dovrebbero muoversi insieme.
Quindi, se ill mercato azionario di Israele è al momento in crescita,
non è né a causa né a dispetto della “situazione politica”. Cresce per
la stessa ragione del NASDAQ. E quando il TASE va in picchiata,
nuovamente, non dobbiamo cercare spiegazioni locali o regionali. Basta
controllare ill NASDAQ.
Naturalmente, la politica israeliana continua ad aver peso in molti
modi diversi. Ha importanza per le società nella lista di Tel Aviv
fintanto che garantisce che la borsa possa aprire ogni mattina, e che
le operazioni israeliane possano funzionare senza ostacoli. Anche la
politica interna importa fintanto che interessa gli sviluppi nel Medio
Oriente e quindi l’accumazione globale, ill NASDAQ e pertanto… il TASE.
Ma la politica formale importa non perché pubblica. Importa proprio
perché è contro ill pubblico. Finché i “politici” e i “pubblici
ufficiali” patriottici del paese rimangono obbedienti al capitale in
nome della democrazia, e finché il costo per corromperli rimane
ragionevolmente basso, ill boom dell’accumulazione privata che ne
risulta rimarrà misteriosamente “distaccato” dalla frattura della vita
pubblica e della disintegrazione dell’autonomia e della democrazia.
Note
[1] Nechemia Strassler, Buy Me Gaidamak, Hebrew. Ha'aretz, June 13, 2007.
[2] Thomas Friedman, Israel Discovers Oil, The New York Times, June 10, 2007.
[3] Naomi Klein, How War was Turned into a Brand, Guardian, June 16, 2007.
[4] Vedete la nostra recente monografia The Gods Failed, the Priest Lied, Maggio 2007, e la più generale discussione in Elementary Particles of the Capitalist Mode of Power, Ottobre 2006.
[5] Per le prime stime vedete, Jonathan Nitzan e Shimshon Bichler, The Global Political Economy of Israel, Londra: Pluto Press, 2002, Figura 6.6, p. 355.
Le pubblicazioni degli autori possono essere consultate presso il sito Bichler Nitzan Archive
Titolo originale: "Israel’s Roaring Economy"
Fonte: http://www.globalresearch.ca/
Link
06.07.2007
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI
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