GUERRA E
CAPITALISMO Data: 17
dicembre 2006 [ 19:00 ] Argomento:
Economia
DEI PROFESSORI JONATHAN NITZAN e SHIMSHON
BICHLER Global Research
Come è cambiato
l’influsso del capitalismo sui conflitti? Un tempo il capitale
dominante beneficiava della guerra tramite i massicci
investimenti pubblici nel complesso militare industriale che
spingevano i paesi fuori dalla recessione (“Keynesianismo
militare”). Nitzan e Bichler mostrano come oggi la guerra
conviene, ed è desiderata dal capitale dominante, perché
spinge i prezzi e l’inflazione tramite il potente motore dei
profitti petroliferi e dell’aumentato prezzo del greggio.
Mentre, per di più, i salari rimangono bassi a causa della
competizione globale con la manodopera dei mercati emergenti.
Intanto la globalizzazione della proprietà e la formazione di
eserciti di professionisti volontari fanno si che lo stato
sociale, che un tempo “premiava” i
cittadini-lavoratori-soldati con i benefici pubblici, non
venga più sentito come necessario dalle elite al potere.
Rimane sempre vero che, come diceva il socialista francese
Jean Jaures, “Il capitalismo porta in sé la guerra come il
nembo porta il temporale”.
La recente moltitudine
di guerre – dall’ Afghanistan all’Iraq a Gaza e al Libano – ha
reinvigorito i discorsi sull’imperialismo, il Keynesianismo
militare [in maniera generica può essere definito come il
massiccio investimento del denaro pubblico nell’industria
militare allo scopo di muovere l’economia e creare posti di
lavoro. Si fa riferimento alle idee di John Maynard Keynes il
quale indicava nell’investimento del denaro pubblico, pur se
inteso per opere di utilità civile, un potente motore per far
uscire un paese dalla recessione n.d.t.] e il complesso
militare-industriale. Molti pensatori radicali hanno da tempo
argomentato che il capitalismo ha bisogno della guerra. Ne ha
bisogno per espandere la sua portata geografica; ne ha bisogno
per aprirsi a nuovi mercati; per accedere a materie prime
economiche; e ne ha bisogno per calmare l’opposizione in
patria e pacificare popolazioni ribelli all’estero.[1]
La percezione comune è che la guerra serva a stimolare
l’economia. In base a questo argomento, il conflitto militare-
e le grandi spese militari in preparazione di un tale
conflitto- danno luogo ad una crescita generale e aiutano a
ridurre la disoccupazione. Questa caratteristica delle spese
militari si trasforma in un efficace strumento fiscale. In
anni di rallentamento economico il governo può imbarcarsi nel
Keynesianismo militare, aumentare la spesa in armi e spingere
l’economia fuori dalla recessione.
Si afferma che, sul
lungo periodo, le spese militari minano la mentalità pacifica
e civile dei regimi liberali. L’ investimento nelle forze
armate spinge gli interessi commerciali delle grandi industrie
degli armamenti, indurisce la mentalità dell’apparato di
sicurezza e dà eccessivo potere ai vertici militari. Messi
insieme questi gruppi diventano sempre più fusi in un
invisibile ma potente Complesso Militare-Industriale – un
complesso che gradualmente arriva a dominare la politica e
spinge la società verso aggressioni all’esterno e
l’avventurismo militare.
La crescita e la fine del
Keynesianismo militare
Le teorie sul Keynesianismo
militare e sul complesso militare-industriale divennero
popolari dopo la Seconda Guerra Mondiale, e forse per una
buona ragione. La prospettiva di una smobilitazione militare,
specialmente negli Stati Uniti, sembrava allarmante. L’ elite
USA ricordava vividamente come l’aumento delle spese militari
aveva spinto il mondo fuori dalla Grande Depressione, e temeva
che una caduta dei budget militari avrebbe invertito questo
processo. Se ciò fosse accaduto, ci si aspettava che il
commercio sarebbe crollato, sarebbe aumentata la
disoccupazione e sarebbe stata messa nuovamente in dubbio la
legittimità del capitalismo del libero mercato.
Cercando di evitare questa prospettiva nel 1950 lo
U.S. National Security Council stilò un documento top-secret,
il NSC-68. Il documento, declassificato solo nel 1977,
chiedeva esplicitamente al governo di utilizzare un maggiore
investimento militare come via per prevenire un tale esito.
[2]
Il NSC-68 segnava la nascita del Keynesianismo
militare. Nei decenni successivi gli investimenti militari
sembrano avere funzionato nel modo immaginato nel documento.
Il processo alla base è illustrato in Fig. 1. Il grafico
mostra la relazione tra la crescita economica USA e la spesa
militare del paese. La linea sottile rappresenta il tasso
annuale di crescita economica (scala sulla destra). La linea
spessa mostra il livello di spesa militare, espresso come
frazione del Prodotto Interno Lordo (PIL) e misurata dalla
scala logaritmica sulla sinistra.[3] Entrambe le quantità sono
mediate su un periodo di dieci anni che mostra meglio le loro
tendenze a lungo termine.
[Figura 1. Spesa militare USA e crescita
economica] I dati mostrano un movimento comune delle
due quantità, in particolare a partire dagli anni 30.
L'aumento delle spese militari in preparazione per la seconda
guerra mondiale è coinciso con un massiccio boom economico. Le
spese militari sono cresciute sino al 43% del prodotto interno
lordo nel 1944 e durante gli anni 40 sono state pari al 20%
del Pil. Questo aumento è stato accompagnato da una crescita
economica montante, con tassi annuali che hanno raggiunto il
picco del 18% nel 1942 e con una media durante gli anni 40 del
6% (i picchi di inizio anni 40 non possono essere visti nel
grafico perché i dati sono stati mediati).
Dopo la
guerra le spese militari hanno iniziato a diminuire, ma sono
rimaste a livelli molto alti per i due decenni successivi.
L'adozione del Keynesianismo militare, insieme alle guerre in
Corea e in Vietnam, hanno aiutato a mantenere le spese
militari al 12% del Pil durante gli anni 50 e al 10% durante
gli anni 60. La crescita economica durante questo periodo è
stata in media di oltre il 4%-inferiore a quella della seconda
guerra mondiale ma abbastanza rapida da mantenere a galla il
capitalismo americano e la fiducia nei suoi capitalisti.
Questa situazione era appoggiata sia dai sindacati che
dall'alta finanza. I grandi gruppi aziendali vedevano nella
spesa militare un'accettabile, o persino desiderabile, forma
di intervento governativo. Da un punto di vista complessivo
queste spese aiutavano a combattere la minaccia di recessione
in patria e a compensare la perdita di mercati civili per la
concorrenza europea e giapponese-tutto ciò senza minare la
santità della proprietà privata e della libera impresa. Nel
particolare molte grandi società ricevevano lucrosi contratti
dal Pentagono, elargizioni che persino i più incrollabili
sostenitori del libero mercato trovavano difficili da
rifiutare.
I grandi sindacati appoggiavano il
Keynesianismo militare per differenti ragioni. Erano d'accordo
nel rimanere fuori dalla politica interna e dalle relazioni
internazionali, nell'accettare le spese militari, e nel
minimizzare gli scioperi in modo da mantenere la pace nel
mondo industriale. In cambio ricevevano sicurezza
nell'impiego, stipendi alti e la promessa di standard di vita
sempre in crescita.
Il consenso fu perfettamente
riassunto nel 1971 dal presidente Nixon che annunciò che
“ormai siamo tutti Keynesiani”.
Ma questo era il
picco. Nei primi anni 70 la Coalizione Keynesiana delle grandi
aziende e dei lavoratori organizzati iniziò a sfaldarsi, il
Keynesianismo militare iniziò ad appassire e lo Stato
sociale-militare cominciò il suo lungo declino.
La
Globalizzazione della Proprietà
Dietro alla
crescita e alla caduta del Keynesianismo militare vi fu un
rovesciamento epocale nella natura spaziale della
proprietà-un'inversione a U dalla graduale de-globalizzazione
della prima metà del secolo ad una massiccia globalizzazione
nella seconda metà.
Sino agli anni 50 la proprietà del
capitale, negli Stati Uniti e altrove, andava ritirandosi nei
suoi rifugi nazionali. Da un punto di vista statistico le
tracce di questo processo sono chiare. Nel 1900 la percentuale
del Pil mondiale di beni posseduti da stranieri raggiunse un
picco del 19%. Ma il seguente fermento delle due guerre
mondiali, della depressione, della sostituzione delle
importazioni e del controllo del capitale hanno fatto pagare
un duro prezzo. I legami internazionali di proprietà furono
rotti o congelati, e la percentuale di beni posseduti da
stranieri è andata continuamente cadendo, raggiungendo nel
1960 il valore del 6% solamente. Durante questo processo
l'accumulazione di capitale venne condotta largamente entro i
confini nazionali.
Questo declino terminò nei primi
anni 70. Il capitale ruppe nuovamente il suo bozzolo nazionale
e, mentre il neoliberalismo e la deregolamentazione
acquistavano forza, le proprietà internazionali iniziarono ad
aumentare. La percentuale del Pil mondiale di beni a controllo
straniero andava raddoppiando ogni decennio: crebbe al 25% nel
1980, salì al 50% del 90 e raggiunse oltre il 90% nel 2000.[4]
L'effetto di questo rovesciamento sul guadagno è stato
drammatico. Le aziende americane oggi ricevono circa un terzo
dei loro guadagni dalle sussidiarie estere rispetto al 5%
degli anni 50 - un incremento di un fattore sei.
Questo rovesciamento nello schema globale della
proprietà ha alterato fondamentalmente la struttura di potere
e le istituzioni del capitalismo. Con il capitale comprato e
venduto su scala mondiale e i profitti sempre più ottenuti al
di fuori del paese, l'accumulazione di capitale è diventata
sempre meno dipendente dalle vendite nazionali. Con una minore
enfasi sull'attività locale le politiche Keynesiane sono
diventate fuori moda. E con il declino del Keynesianismo
l'accordo tra il lavoro e il capitale ha iniziato a sfaldarsi.
Lo Stato sociale, precedentemente visto come un
baluardo contro il comunismo, divenne una zavorra. I
lavoratori non erano più sul punto di
ribellarsi-particolarmente a causa del fatto che i posti di
lavoro venivano trasferiti nei “mercati emergenti” e
l'appartenenza al sindacato era in declino. Inoltre i
capitalisti non avevano più paura della recessione. Al
contrario spesso la incoraggiavano come un mezzo per
disciplinare i lavoratori, ridurre gli stipendi e capovolgere
le vittorie sociali duramente guadagnate dalla classe
lavoratrice.
Anche lo Stato sociale finì sotto
pressione. Il punto di svolta fu il crollo del blocco
sovietico. Rimanendo una sola superpotenza i grandi budget
militari erano ora difficili da giustificare. Negli anni 90 la
spesa militare nel mondo ebbe un crollo, scendendo addirittura
di un terzo rispetto al picco storico dei tardi anni 80. Come
mostra la figura uno le spese in armamenti negli Stati uniti,
il maggior investitore al mondo, sono cadute a un valore medio
del 4,5% del Pil nella prima metà degli anni 2000, il 7% in
meno rispetto agli anni 80.
Le Nuove
Guerre
La caduta dello Stato sociale-militare ha
aperto la porta alla nuova retorica del neoliberismo. I
sostenitori del libero mercato hanno salutato il nuovo regime
per le sue tendenze pacifiche. I suoi detrattori erano
d'accordo ma solo in parte. Da un lato ammettevano che il
neoliberismo, proponendosi di assicurare il libero commercio e
l'apertura al flusso di capitale, cercava di costruire
stabilità politica e pace internazionale. D'altra parte
criticavano il neoliberismo per la sua violenza invisibile,
inflitta attraverso il super-sfruttamento, la povertà di
massa, la disuguaglianza crescente, l'incertezza economica e
l'insicurezza umana.
Sia i sostenitori che i critici,
perciò, furono sorpresi dalla improvvisa bellicosità
dell'inizio del ventunesimo secolo. Le vecchie teorie
sull'imperialismo e il militarismo furono velocemente
rispolverate e riadattate al neoliberismo. Invece di miracoli
di produttività e di No Logo, gli analisti iniziarono a
parlare di “nuovo imperialismo” e “guerre neoliberiste”.
Tuttavia la maggior parte di queste teorie ibride sono
fuorvianti. I nuovi conflitti del ventunesimo secolo-le guerre
infinite, gli scontri di civiltà, le nuove crociate-sono
fondamentalmente differenti dalle guerre di massa e dei
conflitti militari tra stati che hanno caratterizzato il
capitalismo dal diciannovesimo secolo sino alla fine della
guerra fredda. La maggiore differenza non è tanto nelle
caratteristiche militari dei conflitti quanto nel più ampio
ruolo giocato dalla guerra nel capitalismo.
Tanto per
iniziare, in un mondo aperto al commercio non c'è bisogno di
conquistare fisicamente il territorio-né per le materie prime
né per nuovi mercati (notate che la produzione irachena di
petrolio è quasi cessata a partire dalla sua conquista nel
2003, mentre il suo mercato per le importazioni straniere, che
già era trascurabile all'inizio, si è contratto).
Lo
stesso vale per la spesa militare: con l'aumento dei profitti
esteri non c'è più un imperativo commerciale per alte spese
militari. Mentre i budget militari Usa sono marginalmente
cresciuti all'alba delle nuove guerre-dal 3,9% del Pil alla
fine della presidenza Clinton al 4,7% attuale-questo è un
incremento il cui effetto sulla domanda aggregata è
insignificante per gli standard storici.
Gli attacchi
Usa successivi al 2000 hanno avuto anche poco senso da un
punto di vista militare. Paesi con capacità nucleari provate,
come il Pakistan e la Corea del Nord, sono stati lasciati in
pace, mentre altri che non presentavano un pericolo reale-in
particolare Afganistan e Iraq-sono stati invasi, occupati e
ora tengono legato gran parte dell'esercito stabile Usa senza
che si veda alcuna fine.
Infine, le immagini di guerra
trasmesse dalla televisione e i costanti discorsi sul
terrorismo possono avere spaventato la popolazione
occidentale. Ma a differenza del successo delle ideologie
nazionaliste e liberali durante le due guerre mondiali nella
guerra fredda successiva, la nuova retorica sulla guerra
infinita non ha fatto innamorare le masse del capitalismo
neoliberista.
Le guerre degli anni 2000 sono infatti
nuove. E sono nuove, almeno in parte, perché lo stesso
capitalismo è cambiato.
Il Nuovo Ordine del
Capitale
Il cambiamento centrale riguarda la natura
basilare del capitale, una trasformazione che è iniziata nel
tardo secolo diciannovesimo ma che è diventata evidente solo
recentemente.
Le teorie esistenti, ancorate alla
realtà del primo diciannovesimo secolo, continuano a esaminare
il capitale dalla prospettiva “materiale” di consumo e
produzione. Gli economisti neoclassici ancorano le loro
analisi all'utilità, mentre i marxisti classici basano la loro
teoria sul tempo di lavoro. In contrasto con questi approcci,
noi suggeriamo che, nelle moderne condizioni, il capitale non
può più essere visto come un'entità “materiale”. Per come lo
vediamo noi, il capitale non rappresenta né l'utilità
neoclassica né l'astratto lavoro marxista, ma piuttosto il
potere-il potere dei suoi proprietari di dare forma a tutto il
processo di riproduzione sociale.
Noi sosteniamo che,
basata sulla comprensione del capitale come potere, come prima
cosa l'analisi del capitalismo non debba focalizzarsi sul
capitale “in generale” e molti capitali “in competizione”, ma
più specificatamente sui gruppi di capitali dominanti al
centro della politica economica. In secondo luogo affermiamo
che l’accumulazione debba essere compresa non in senso
assoluto, ma in senso differenziale-cioè riguardo alla
capacità del capitale dominante di “sconfiggere la media” e
incrementare il suo potere relativo [5].
Le
implicazioni di questa prospettiva di potere sono di grande
portata. Per il nostro presente scopo suggeriamo:
1.
Che nel tempo, le unioni aziendali, piuttosto che la crescita
economica, diventino il maggiore motore dell'accumulazione
differenziale (“larghezza”); e
2. Che sotto certe
circostanze il capitale dominante può beneficiare grandemente
dall'inflazione e dalla stagflazione (“profondità”).
Nella nostra ricerca abbiamo trovato che, nel secolo
scorso, l'accumulazione globale ha infatti oscillato tra
questi due regimi di unione e di stagflazione ["In economia,
per stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed
inflazione) si intende indicare la situazione nella quale sono
contemporaneamente presenti - su un determinato mercato - sia
un aumento generale dei prezzi (inflazione) che una mancanza
di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione
economica)." da Wikipedia
n.d.t.]. La fase più recente, che è durata per gran parte
degli ultimi anni 80 e 90 è chiaramente una di “larghezza”. In
tale periodo il capitale dominante ha beneficiato grandemente
dall'apertura al dominio aziendale dell'ex Unione sovietica e
di altri “mercati emergenti”, così come dal collasso dello
Stato sociale e dalle massicce privatizzazioni dei servizi
governativi.
Questo ciclo di 'larghezza' con la sua
enfasi sul neoliberismo, la deregolamentazione, la finanza
sana e la disinflazione si è concluso al passaggio del nuovo
millennio. La crisi finanziaria che è iniziata in Asia e si è
poi diffusa ai mercati principali, il crollo della new
economy e le sue scandalose pratiche contabili, i discorsi
sul terrorismo globale della guerra infinita per sconfiggerlo,
hanno fatto sembrare meno allettanti i movimenti di capitale e
le unioni tra società molto meno promettenti. Inoltre, due
decenni di neoliberismo hanno indebolito il potere nello
stabilire i prezzi, sollevando lo spettro della deflazione dei
prezzi del debito per la prima volta dai tempi della Grande
Depressione.
Di fronte a queste difficoltà, i
capitalisti in generale ed i capitalisti dominanti in
particolare hanno iniziato a desiderare una piccola dose di
sana inflazione, sia per allontanare la deflazione del debito
che per dare una spinta iniziale all'accumulazione
differenziale. Come si è visto poi, la soluzione per le loro
difficoltà-voluta o meno-è stata un nuovo conflitto energetico
nel Medioriente (cioè un conflitto collegato direttamente o
indirettamente al petrolio). Negli scorsi 35 anni questi
conflitti sono stati la prima causa del cambiamento dei prezzi
petroliferi, i prezzi del petrolio hanno fornito la scintilla
per un ampio processo di inflazione. Era il meccanismo chiave
per dare inizio all'inflazione ed era pronto all'uso.
In questo senso il conflitto militare è arrivato ad
assumere un nuovo ruolo indiretto nel processo di
accumulazione. Sino agli anni 50 e 60, il maggiore impatto del
conflitto militare funzionava attraverso il grande budget
militare che faceva esplodere in maniera diretta la domanda
aggregata e i profitti generali, così come i guadagni dei
maggiori appaltatori militari. Ma con la riglobalizzazione
della proprietà e l'arrivo della distensione, i budget
militari hanno iniziato contrarsi. Inizialmente sono calati
solo in modo relativo, come percentuale del Pil, ma dai tardi
anni 80 hanno anche iniziato a cadere in maniera assoluta, in
termini di dollari. Sebbene queste spese sostengano ancora gli
appaltatori militari, il loro effetto diretto sull’
accumulazione del capitale è diminuito significativamente.
Eppure il conflitto militare in quanto tale non ha
perso la sua attrattiva; ha ancora un grande impatto
sull'accumulazione. La novità è che tale impatto funziona oggi
in gran parte in modo indiretto, attraverso l'inflazione, i
prezzi relativi e la ridistribuzione.
I Conflitti
Energetici e i Profitti Differenziali
I beneficiari
chiave di questo nuovo legame indiretto sono le grandi
compagnie petrolifere. Il centro geografico di questo processo
è il Medioriente. Dopo la Guerra del Vietnam, il Medioriente è
diventato la zona calda del conflitto globale, con degli ovvi
corollari per il prezzo del petrolio. La relazione tra questi
conflitti e i profitti differenziali delle compagnie
petrolifere, però, ha ricevuto poca o nessuna attenzione.
Non è difficile vedere la ragione di questa negazione.
Gran parte delle analisi sul conflittto in Medioriente e il
petrolio sono situate nella interesezione disciplinare tra le
“relazioni internazionali” e l’ “economia internazionale”. Il
loro ragionamento base gira attorno alla lotta degli Stati per
le materie prime. Da un lato vi sono i paesi industrializzati
che hanno bisogno di petrolio economico per sostenere la loro
crescita e la loro riproduzione estesa. Dall'altro lato vi
sono i paesi del medio oriente, organizzati tramite l'Opec la
cui intenzione è di estrarre da questo processo quanta più
rendita possibile. Questo ampio conflitto è complicato da
diversi fattori: rivalità tra gli Stati-per esempio tra Stati
Uniti e l'Unione Sovietica in passato e l'Europa e l'Asia
attualmente; ostilità religiose o etniche nello stesso
Medioriente; o gli interessi dei vari settori o fazioni
capitaliste nei paesi industrializzati.
In questa
polemica di alta politica ed economia delle risorse, pochi si
sono preoccupati di rompere il fronte comune, pochi hanno
fatto lavoro empirico, e quasi nessuno si è occupato di come
esattamente entra nel quadro l'accumulazione da parte delle
compagnie petrolifere. La figura due offre un'idea di ciò che
manca da questa storia. Il grafico mostra la storia
dell'accumulazione differenziale da parte del nocciolo duro
delle maggiori compagnie petrolifere-cioè BP, Chevron, Exxon,
Mobil, Royal-Dutch/Shell e Texaco.[6]
[Figure 2. Profitti Differenziali della
Maggiori compagnie Petrolifere] Ogni figura misura
la differenza tra il tasso di guadagno sul capitale di queste
compagnie e il tasso medio di guadagno sul capitale delle
compagnie di riferimento della lista Fortune 500 (con i
risultati espressi in percentuale della media di Fortune 500).
Le barre grigie mostrano anni di accumulazione differenziale;
cioè anni in cui le maggiori compagnie petrolifere hanno avuto
un tasso di guadagno sul capitale superiore alla media. Le
barre nere mostrano periodi di deaccumulazione differenziale;
cioè anni in cui le maggiori compagnie petrolifere erano al di
sotto della media. Per ragioni che saranno evidenti tra poco
questi ultimi periodi corrispondono a “pericoli” in
Medioriente. Infine l'esplosione indica “conflitti
energetici”-cioè conflitti che erano legati direttamente o
indirettamente al petrolio.[7] Il grafico mostra tre andamenti
tutti significativamente persistenti:
Come prima cosa
ogni conflitto energetico in Medioriente è stato preceduto da
una zona di pericolo, in cui le compagnie petrolifere hanno
sofferto deaccumulazione differenziale.
Come seconda
cosa ogni conflitto energetico è stato seguito da un periodo
durante il quale le compagnie petrolifere hanno superato la
media dei guadagni.
In terzo luogo, con la sola
eccezione del 1996-1997 le compagnie petrolifere non sono mai
riuscite a superare la media senza che prima avvenisse un
Conflitto Energetico.[8]
Inoltre questi andamenti sono
in accordo con i più ampi processi di larghezza e profondità.
Il grafico indica tre periodi distinti, ognuno caratterizzato
da un diverso regime di accumulazione differenziale, e ognuno
guidato da una differente fazione all'interno del capitale
dominante.
Durante l'era di ‘profondità’ degli anni 70
e dei primi anni 80, l'accumulazione differenziale era
alimentata dalla stagflazione e guidata dal conflitto. La
fazione alla guida all'interno del capitale dominante era la
“Weapondollar-Petrodollar Coalition”, cioè la coalizione tra
le grandi aziende di armamenti e del petrolio. In questo
contesto le compagnie petrolifere riuscivano a superare la
media con facilità, con arretramenti solo occasionali,
corretti rapidamente da conflitti in Medioriente.
Durante il periodo di ‘larghezza’ dei tardi anni 80 e
90, le unioni tra compagnie hanno sostituito l'inflazione come
maggiore motore di accumulazione differenziale. Le compagnie
petrolifere e degli armamenti hanno perso il loro primato a
danno di una coalizione della "new economy" guidata da aziende
civili del settore high-tech. La retorica neoliberista ha
rimpiazzato il gergo dello Stato sociale-militare, i conflitti
in Medioriente si sono allargati e accresciuti di meno, e le
compagnie petrolifere sono rimaste normalmente sotto la media
dei guadagni.
Gli eventi degli anni scorsi
suggeriscono che questo secondo periodo potrebbe essere ormai
finito, con il declino del boom di unioni tra aziende e il
ritorno al primato della Weaponodollar-Petrodollar Coalition.
Quest'ultima coalizione, le cui fortune erano declinate dai
tempi della prosperità stagflazionaria degli anni 70 e dei
primi anni 80, sono ritornate con sete di vendetta. Avendo
aiutato a reinstallare la famiglia Bush alla casa bianca la
coalizione ha iniziato a cercare nuovi nemici ed è stata sin
troppo felice di poter sfruttare l'opportunità offerta dalla
“nuova Pearl Harbour” dell'11 settembre. [9]
Gli
argomenti e gli andamenti statistici qui presentati sono stati
articolati per la prima volta nei tardi anni 80, ulteriormente
sviluppati a metà degli anni 90 ed aggiornati di recente nel
2006.[10] Eppure le ultime osservazioni sulla figura due sono
nuove e suggeriscono un allontanamento significativo dei
passati schemi. Sino ai tardi anni 90 la performance
differenziale delle compagnie petrolifere oscillava tra il 50%
sotto o sopra l'indice del Fortune 500. Recentemente tuttavia
la scala è cambiata. Durante il periodo 2000-2005 le quattro
maggiori compagnie petrolifere mondiali hanno guadagnato $ 338
miliardi di profitti netti-un terzo di mille miliardi-che
rappresentano un tasso medio di guadagno del 20%, quasi doppio
di quello del Fortune 500.
Il Primato dei
Prezzi
Il legame tra i conflitti Medioriente ed i
guadagni differenziali è il prezzo del petrolio. Questo legame
è illustrato dalla figura 3. Nel grafico la linea spessa
mostra la percentuale data dalle aziende petrolifere nel
profitto aziendale globale. La linea sottile mostra il prezzo
relativo del petrolio calcolato dividendo il prezzo in dollari
per barile con l'indice dei prezzi al consumo negli Usa e
ritardato di un anno (l'impatto pieno sul profitto di un
cambiamento nel prezzo del petrolio si sente solo dopo un anno
perché i guadagni pubblicati dalle aziende rappresentano la
somma dei movimenti degli ultimi quattro trimestri).
[Figura 3. Prezzo del Petrolio e
Distribuzione Globale dei Profitti] La correlazione
tra queste due grandezze è estremamente stretta.[11] Questo
dato statistico indica l'immensa importanza che prezzi hanno
nel processo di accumulazione. In questo particolare grafico
la stretta correlazione rende superflue gran parte delle
discussioni dei media e le dotte analisi sul campo
petrolifero. Per sapere i profitti differenziali delle
compagnie petrolifere da qui a un anno, non c'è bisogno di
speculare sul picco del petrolio, sulla crescente domanda
cinese o sull'ondata di caldo in arrivo in Europa. Questo
genere di speculazioni, sebbene interessanti per altri scopi,
non sono qui necessarie. La sola cosa necessaria da sapere è
il prezzo attuale del petrolio.
Per esempio: i dati
ufficiali non sono stati ancora pubblicati, ma già sappiamo
che negli scorsi 12 mesi il prezzo medio del petrolio è stato
circa di 65 dollari del 2002. La correlazione nel grafico
suggerisce che da qui a un anno la percentuale di profitto
globale delle compagnie petrolifere crescerà di circa il
15%.
Ora facciamo un passo indietro ed esaminiamo la
storia presentata nella figura tre. I dati mostrano che
durante le crisi petrolifere degli anni 70 e primi anni 80, il
costo del greggio salì alle stelle. Nel 1979 un barile di
petrolio costava più di 90 degli attuali dollari. Durante quei
felici giorni di stagflazione, le compagnie petrolifere
intascarono quasi il 20% dei profitti globali. Ma quando
l'accumulazione differenziale passò al regime di ‘larghezza’ e
le unioni tra aziende ebbero un picco, l'inflazione cadde e i
prezzi del petrolio diminuirono persino più rapidamente. La
percentuale di profitto globale delle compagnie petrolifere
crollò, raggiungendo un semplice 3% alla fine della presidenza
Clinton.
L'inverso avvenne con il nuovo millennio e la
presidenza Bush. Con l'invasione dell'Afganistan nel 2001 il
Medioriente è entrato in un prolungato periodo di guerra, i
prezzi del petrolio sono cresciuti sino ai 65-75 dollari e la
percentuale di profitto globale appartenente alle compagnie
petrolifere-sebbene non ancora al suo massimo storico-sta
crescendo sempre di più.
Quanto sono grandi i guadagni
delle compagnie petrolifere? Durante il periodo di cinque anni
che va dall'agosto 2001 al luglio 2006, l'incasso netto medio
di tutto il settore petrolifero è arrivato a $ 108 miliardi
all'anno. Questo dato va paragonato ad un profitto annuale di
soli $ 34 miliardi all'anno tra l'agosto 1999 e il luglio
2000-un salto di 75 miliardi arrotondando le cifre.
Quanto è costato generare questo salto nei profitti?
Per semplicità assumiamo che dal 2000 l'intero incremento del
prezzo petrolifero-e perciò tutto l'incremento nei profitti
petroliferi-è stato dovuto ai nuovi conflitti energetici in
Medioriente. Consideriamo inoltre che sin qui il governo Usa
ha speso nelle sue operazioni in Afganistan e Iraq
l'equivalente ogni anno dell'1% del suo Pil-quasi $ 100
miliardi l'anno.
Queste assunzioni, sebbene
semplicistiche e inaccurate, indicano le grandezze in gioco:
la guerra costa $ 100 miliardi l'anno e genera $ 75 miliardi
extra ogni anno in profitti petroliferi. In altre parole per
ogni dollaro che il governo Usa spende nelle guerre, i
proprietari delle compagnie petrolifere guadagnano altri 75
centesimi di profitto netto.
Chiaramente questi
rapporti costi-benefici possono essere generati solo in modo
indiretto. E questo è forse uno dei tratti importanti delle
nuove guerre: un incremento abbastanza modesto nelle spese
militari porta cambiamenti massicci nei prezzi e nella
distribuzione-cambiamenti che vanno oltre lo scenario
immediato del conflitto, e la cui grandezza può essere
paragonabile e persino superare lo stesso budget militare.
Dolce Inflazione
Come notato in
precedenza le nuove guerre sono arrivate quando stava
declinando la lunga fase di ‘larghezza’ dell’ accumulazione
differenziale. I beneficiari immediati sono stati gli
appaltatori del settore degli armamenti e le compagnie
petrolifere della “Weapondollar-Petrodollar Coalition”. Ma
gradualmente con lo spostamento dell'accumulazione
differenziale globale dalla ‘larghezza’ alla ‘profondità’ i
guadagni si sono diffusi a tutto il capitale dominante.
La figura quattro illustra chiaramente questo processo
nel caso degli Stati Uniti. La linea sottile nel grafico
raffigura il tasso di inflazione, misurato come il tasso
annuale di cambiamento dell'indice dei prezzi al consumo. La
linea spessa è il rapporto tra i profitti e i salari. Misura
il rapporto tra i guadagni per azione dello S&P 500 (le
maggiori aziende scambiate pubblicamente registrate negli
Stati Uniti, che possono essere considerate come indicatore
del capitale dominante) e il salario medio per ora di lavoro
nel campo manifatturiero.
[Figura 4. USA: Inflazione, Profitti e
Salari] Movimenti in quest'ultimo indice mostrano
una redistribuzione. Quando l'indice cresce significa che i
profitti del capitale dominante crescono più velocemente o
cadono più lentamente rispetto ai salari. Quando l'indice cade
suggerisce un processo contrario-cioè che i profitti del
capitale dominante cadono più velocemente o crescono più
lentamente rispetto ai salari.
Come mostra il grafico
dalla fine del 2000 l'inflazione ha iniziato a cadere e nel
2002 ha raggiunto l'1%-il minimo da dopo la guerra. Il declino
è stato accompagnato da un massiccio calo nel rapporto tra
profitti e salari, che è caduto del 55% dal suo picco del
2000. All'inizio di questi sviluppi, il presidente dela
Federal Reserve, Alan Greenspan, ha lanciato un avvertimento
su uno “sgradito e consistente calo dell'inflazione,” ed è
stato incoraggiato dai maggiori finanzieri a “cercare
un'inflazione più alta”.[12]
Questi allarmi
deflazionari avvennero nell'aprile del 2003, dopo che gli Usa
avevano già invaso l'Iraq. La nostra visione allora era
piuttosto differente. Nel gennaio 2003, appena prima
dell'invasione, scrivemmo:
“... se il prezzo del
petrolio continua a salire l'inflazione probabilmente lo
seguirà, lo spettro della deflazione verrà scacciato le grandi
compagnie potranno tirare un grande sospiro di sollievo. Per
queste aziende ci sarà anche una ciliegina sulla torta.
L'inflazione solitamente redistribuisce i guadagni dal lavoro
al capitale e dalle piccole aziende alle grandi. Renderà
perciò le grandi aziende relativamente, se non assolutamente,
più forti."[13]
E infatti Greenspan non dovette fare
troppa fatica. Le nuove guerre fecero questo lavoro per lui. I
neoconservatori hanno mandato il loro esercito in Medioriente,
i prezzi del petrolio sono cresciuti, e l'inflazione-sebbene
esitante all'inizio-alla fine ha iniziato a seguirli.
Le conseguenze sulla distribuzione non passarono
inosservate per investitori e lavoratori. Mentre i salari
rimanevano stabili, i guadagni-particolarmente quelli ottenuti
dal capitale dominante-salirono parecchio. Come risultato il
rapporto tra profitti e salari è rapidamente aumentato-salendo
del 250% dal 2001 e facendo raggiungere alla frazione di
profitto sul Pil i suoi più alti livelli da che sono stati
raccolti i dati nel 1929.
Il grande impatto
distribuzionale di un piccolo incremento dell'inflazione è
sintomatico del nuovo ordine. Durante il periodo dello Stato
sociale-militare, l'inflazione solitamente implicava una
spirale di salari e dei prezzi che riusciva a limitare
l'incremento differenziale nei profitti. Per esempio, un
incremento del 4% nei prezzi sarebbe stato tipicamente
accompagnato da un aumento nei salari ad esempio del 3%. Come
risultato il rapporto tra entrate (vendite) e uscite (salari)
sarebbe aumentato solo dell'1%, generando solo un aumento dei
profitti relativamente modesto. La situazione oggi è molto
differente.
I lavoratori degli Stati Uniti sono
intrappolati in una competizione globale con i lavoratori
della Cina, India e di altri mercati emergenti, il che
significa che i salari non crescono-qualche volta addirittura
calano-nel mezzo dell'inflazione dei prezzi. In questo
contesto un'inflazione del 4% si traduce in un incremento del
4% nel rapporto tra entrate (vendite) e uscite (salari) e
quindi in un aumento molto maggiore dei profitti.
Alla
fin fine quindi le nuove guerre sono molto economiche. Per un
costo minimo muovono l'inflazione e generano un grande
incremento nei profitti. Ma le guerre a poco prezzo hanno un
altro aspetto. Sono difficili da vincere.
Guerre a
Poco Prezzo
L'idea di enormi eserciti composti da
“volontari” nacque con la rivoluzione francese. I nuovi
soldati si rivelarono molto più economici e fedeli rispetto ai
mercenari, e combattevano bene. Eppure le masse dovevano
essere educate in modo da poter leggere i giornali e seguire
la propaganda-da qui la nascita dell'educazione “elementare”
obbligatoria. Più tardi i proletari iniziarono a chiedere
maggiori benefici. Volevano cultura, assicurazione, pensioni e
benefici per i veterani. Intorno al 1910 le elite riuscirono a
ingannarli. Mandarono le masse a venire massacrate a milioni
nelle trincee della prima guerra mondiale, e poi abbandonarono
coloro che ritornavano come veterani. Questa esperienza alzò
la posta in gioco. Nei primi anni 40 ai cittadini-soldati
doveva essere offerto uno Stato sociale completo perché
fossero disposti a venire ancor una volta macellati nella
seconda guerra mondiale. Quelli che inizialmente sembravano
“soldati gratuiti” si rivelarono un mezzo dispendioso per
combattere le guerre.
L'ultima guerra costosa è stata
il Vietnam. Quando la globalizzazione neoliberista ha
sostituito lo Stato sociale-militare non c'è stato più bisogno
di eserciti di massa con alti costi di gestione. Invece i
capitalisti hanno iniziato ad investire in “armi intelligenti”
che potevano essere usate, causando enormi danni, da chi
abbandonava la scuola superiore. Abbandonarono la leva in
favore di eserciti interamente professionali-in parte statali
e in parte privati.
Un processo simile è avvenuto in
Israele. Durante gli anni 70, negli anni di fioritura
dell'economia sociale-militare israeliana, la spesa militare
ammontava al 25% del Pil, la leva comprendeva gran parte dei
cittadini ebrei (esclusi gli ultra-ortodossi) e il governo
spendeva largamente in servizi sociali.
Ma con il
regime economico di ‘larghezza’ dei tardi anni 80 e anni 90, i
capitalisti israeliani sono diventati meno dipendenti
dall'economia di guerra. Israele ha iniziato la
riconciliazione con i suoi vicini Stati arabi, e l'esercito è
stato sia ridotto che trasformato. La spesa militare è caduta
al 6% del Pil, e molte attività militari sono state
privatizzate. La durata del servizio militare è stata
accorciata, e meno persone erano costrette alla leva. In
parallelo lo Stato sociale è stato progressivamente
smantellato con la costante erosione dell'educazione, della
salute pubblica e di altri servizi sociali. Centinaia di
migliaia di lavoratori ospiti sono stati fatti entrare e i
sindacati sono stati ridotti ad istituzioni di facciata.
Le conseguenze di questo processo sono illustrate in
figura cinque. Il grafico paragona lo stipendio medio mensile
con l'indice del mercato azionario di Tel Aviv (entrambi
espressi con prezzi costanti e riscalati a scopo di paragone
assumendo il gennaio 1980 uguale a 100).
[Figura 5. Capitalisti contro Lavoratori]
Il grafico mostra che, sino ai primi anni 90, le
fortune di lavoratori e capitalisti si muovevano più o meno in
tandem. Ma con l'offensiva del regime di ‘larghezza’ le strade
si sono separate. Durante gli anni 90 e i primi anni 2000 gli
stipendi difficilmente sono aumentati, mentre i guadagni del
capitale sono saliti alle stelle.
I riservisti
israeliani, che adesso vengono chiamati a combattere nelle
guerre attuali, probabilmente non hanno visto questo grafico,
ma la realtà dietro ad esso gli è certamente familiare. Essi
sono a conoscenza dei servizi sociali che si deteriorano,
dell'insicurezza lavorativa, dei costi estremamente elevati
per le abitazioni, della perdita di spazi aperti. Sanno che
venire feriti in guerra è un pessimo affare che comporta
scarse compensazioni. E, cosa più importante, sanno che
l'elite che li manda a combattere non ha alcun vero interesse
verso di loro.
Questi sentimenti sono abbastanza
espliciti e compaiono regolarmente sulla stampa. Il seguente è
un tipico resoconto delle difficoltà affrontate dai soldati
riservisti:
“Il ministro della difesa Amir Peretz si è
rifiutato di applicare una legge che permette ai riservisti
dell'esercito richiamati in servizio di recente di godere di
un'esenzione dalle tasse e dagli interessi, associati ai loro
debiti, che maturano durante il periodo di servizio. I
riservisti sono furiosi dopo che hanno scoperto che sono
ancora costretti a pagare le tasse e gli interessi anche se
non hanno possibilità di effettuare il pagamento in tempo
perché sono stati richiamati. ‘I riservisti vengono
dimenticati, nel modo in cui si sono sempre dimenticati di
noi,’ ha detto Alex Minkovsky uno dei leader
dell'organizzazione dei riservisti. ‘Chiediamo al ministro
della difesa Amir Peretz che si è sempre preoccupato del
sociale di svegliarsi e fare qualcosa. Siamo inondati da
proteste di riservisti che affrontano crisi ogni giorno.’”
[14]
Il capitale dominante non ha simili lamentele.
Come si è visto, il giorno prima che il ministro della difesa
Peretz si rifiutasse di dare ascolto alle lamentele di
riservisti, il suo governo ha privatizzato le raffinerie
petrolifere del paese per un valore di $ 800 milioni. In
un'intervista il vincitore dell'asta, Tzadik Bino, sembrava
quasi imbarazzato:
“Lo Stato non avrebbe dovuto
privatizzare le raffinerie, e nemmeno avrebbe dovuto
privatizzare El-Al [la compagnia aerea nazionale], Bezeq [la
compagnia telefonica nazionale] e Magen David Adom [il
servizio medico di emergenza]... Il prossimo passo sarà
privatizzare l'esercito... Stiamo sempre combattendo per la
nostra esistenza e non è utile trasferire beni strategici in
mani private.”[15]
Il vecchio Stato sociale-militare
era dominato da figure carismatiche, “leaders” quali
Churchill, de Gaulle e Ben Gurion che sembravano lontani da
ogni interesse “particolare”. Al contrario lo Stato
neoliberista attende ad essere popolato da servitori-molti dei
quali corrotti e criminali-quali Bush, Chirac, Berlusconi,
Sharon, Netanyahu e Olmert che non provano nemmeno a
nascondere le cose a cui sono veramente leali.
L’elite
capitalista che è servita e sostenuta da questi politici non
ha più un autentico attaccamento nazionale. Molte delle
maggiori compagnie israeliane sono possedute da investitori
stranieri e da aziende multinazionali. Similmente gran parte
dei maggiori proprietari israeliani-dai Recannatis, ai Fishman
e Khan-sono diventati investitori globali. Israele è per loro
semplicemente uno dei tanti beni in un portafoglio mondiale
diversificato. A differenza che negli anni 70, quando avevano
tutte le loro uova nello stesso paniere israeliano, ora non si
devono preoccupare troppo di ciò che accade nel loro paese. Le
loro proprietà locali rappresentano solo una frazione dei loro
investimenti e possono essere facilmente vendute.
Una
recente citazione dalla rubrica finanziaria del quotidiano
Ha’aretz, scritta nel mezzo dei combattimenti in Libano e a
Gaza, indica quanto la diversificazione tra beni stranieri è
stata accettata come naturale dai “comuni” investitori:
“In più rispetto ai normali rischi dei mercati
emergenti come Cina, Brasile o Russia, Israele ha un continuo
rischio di sicurezza... Questo rischio non può essere ignorato
nemmeno in tempo di pace. La diversificazione globale
dell'investimento non è perciò un privilegio. È una
necessità.... Significa che, nell'interesse di ridurre il
rischio, gli investitori israeliani devono dislocare
permanentemente una proporzione fissa dei loro beni in
investimenti oltremare. Qual'è la quantità ‘sufficiente’? sino
a poco tempo fa l'abitudine era il 25%, ma forse la
percentuale di beni esteri dovrebbe essere alzata al 50%. I
nostri corpi devono rimanere qui. Ma perché i nostri risparmi
devono subire lo stesso destino?”[16]
In queste
circostanze non ci si deve meravigliare che la “macchina da
guerra” israeliana abbia perso gran parte della sua forza
militare. L'incentivo a combattere per il proprio paese,
quando quel paese è così socialmente spaccato, è molto
ridotto-particolarmente quando si combatte con milizie
religiose socialmente integrate e fortemente motivate.
Così vanno avanti le guerre a poco prezzo, montano la
morte e la distruzione, e si continuano ad accumulare
profitti.
Jonathan Nitzan insegna economia
politica alla York University di Toronto. Shimshon
Bichler insegna economia politica in college e Università
israeliane. Gran parte delle loro pubblicazioni sono
liberamente disponibili presso The Bichler & Nitzan
Archives.
NOTE
[1] Non tutti i
pensatori radicali condividono questa visione. Alcuni al
contrario pensano che guerra e militarizzazione, sebbene
connaturate e spesso causate dalla realtà capitalista,
danneggiano il capitalismo e ne minano la vitalità.
[2] United States, National Security Council, NSC 68:
United States Objectives and Programs for National Security. A
Report to the President Pursuant to the President’s Directive
of January 31, 1950. Top Secret. Washington DC, 1950.
[3] Una scala logaritmica che ha l'effetto di
amplificare l'ampiezza del grafico a piccoli valori e
comprimerne l'ampiezza a grandi valori. La trasformazione
utile quando ci sono salti molto grossi nei dati-come durante
gli anni 40-salti che farebbero sembrare le variazioni a
piccoli valori troppo minuscole per essere individuate sul
grafico.
[4] I dati sul rapporto tra beni esteri e il
provengono da: Maurice Obstfeld and Alan M. Taylor, Global
Capital Markets: Integration, Crisis and Growth (Cambridge:
Cambridge University Press, 2004), pp. 52-53, Table 2-1.
[5] Questi argomenti sono spiegati in: Jonathan Nitzan
and Shimshon Bichler, "Dominant Capital and the New Wars,"
Journal of World Systems Research, 2004, Vol. 10, No. 2, pp.
255-327.
[6] A causa delle unioni aziendali, i dati in
figura due riguardano la British Petroleum sino al 1997 e la
BP-Amoco dal 1998; la Chevron e la Texaco sino al 1999 e la
Chevron-Texaco dal 2000; la Exxon e la Mobil sino al 1998 e la
ExxonMobil dal 1999; e in tutto il grafico la
Royal-Dutch/Shell.
[7] I conflitti includono il
conflitto arabo israeliano del 1967; il conflitto arabo
israeliano del 1973; l'impressione israeliana del Libano nel
1979; La rivoluzione iraniana del 1979; l'invasione sovietica
dell'Afghanistan del 1979; l'inizio della guerra tra Iran e
Iraq del 1980; la prima guerra del Golfo nel 1990; gli inizio
della seconda Intifada nel 2000; l’ invasione dell'Afghanistan
nel 2001 da parte della coalizione; e l'invasione nel 2003
dell’Iraq da parte della coalizione (la cui preparazione è
iniziata pubblicamente nel 2002).
[8] Sebbene non ci
sia stato un conflitto “ufficiale” nel 1996-1997, vi è stata
molta violenza compresa un'invasione irachena delle aree curde
e attacchi Usa con missili cruise.
[9] Nel 2003,
mentre si svolgeva la guerra in Iraq, scrivemmo il seguente
testo:
La nostra idea è che i conflitti in Medioriente
fanno parte integrante dei processi di potere
dell'accumulazione globale... In questo processo la
“Weapondollar-Petrodollar Coalition” è diventata sempre più
mescolata da un lato con i suoi governi ‘genitori’ e con i
suoi ‘ospiti’ OPEC dall'altro, portando a una crescente
simbiosi Stato-capitale tra di essi. Che ci sia stata o no una
‘cospirazione’ in questo fatto, e quale sia stata la natura
esatta di tale ‘cospirazione’, è una questione aperta. Se
fortunatamente questo genere di questioni non sono argomenti
usuali per gli spettacoli televisivi in prima serata.
Occasionalmente però la verità viene alla luce, sebbene con un
po’ di ritardo... Forse quando sarà il momento qualcuno
pubblicherà gli ‘Exxon Papers’ segreti o un ‘Rapporto del
National Security Council su energia e guerra in medio
oriente’ declassificato, aprendo così una finestra sulla
storia segreta dei Conflitti Energetici nella regione”
("Dominant Capital and the New Wars," Journal of World Systems
Research, 2004, Vol. 10, No. 2, p. 313).
Come si è
dimostrato i documenti importanti sono emersi piuttosto
rapidamente. Meno di un anno dopo la pubblicazione del nostro
articolo, Greg Palast ha rivelato l'esistenza di due piani
segreti-e piuttosto diversi tra loro-per il futuro del
petrolio iracheno. Palast ha ipotizzato che l'invasione Usa
dell'Iraq nel 2003 rifletteva due strategie in conflitto di
due fazioni opposte. La prima e più rumorosa fazione, guidata
dai neoconservatori e dal Pentagono, pianificava di
privatizzare il petrolio iracheno, inondare il mercato e
danneggiare l’ OPEC. L'altra fazione, guidata dalle grandi
compagnie petrolifere ed elementi interni al Dipartimento di
Stato non condivideva nessuna di queste fantasie. Avrebbe
lasciato che i neoconservatori finissero il lavoro di
conquistare l'Iraq e avrebbe poi mandato i suoi rappresentanti
a prendere il controllo della produzione petrolifera del
paese. Alla fine non c'è stata privatizzazione, inondamento
del mercato e danneggiamento dell’ OPEC-un'organizzazione di
cui gli Stati Uniti, come padroni dell'Iraq, erano ormai
membri di fatto. Vedere Greg Palast, "Secret US Plans for
Iraq’s Oil," BBC News, March 17, 2005; Greg Palast, Armed
Madhouse (New York: Dutton, 2006).
[10] Jonathan
Nitzan and Shimshon Bichler, "New Imperialism or New
Capitalism?" Review, 2006, Vol. XXIX, No. 1, pp. 1-86.
[11] Il coefficiente di correlazione tra i due
grandezze mensili vale 0.8 per il periodo dal gennaio 1974, e
0.92 per il periodo dal gennaio 1979.
[12] Alan
Greenspan, "Testimony of Chairman Alan Greenspan Before the
Joint Economic Committee," U.S. Congress, May 6, 2003; Bill
Dudley and Paul McCulley, "Greenspan Must Go For Higher
Inflation," Financial Times, April 23, 2003, pp. 17.
[13] Jonathan Nitzan and Shimshon Bichler, "It's All
About Oil," News From Within, Vol. XIX, No. 1, January 2003,
p. 11.
[14] Tani Goldstein, "Reservists Want Peretz to
Okay Perks," Ynet, August 1, 2006.
[15] Tani
Goldstein, "Bino to Ynet: 'There Was No Need to Privatize the
Refineries.'" Hebrew, Ynet, August 1, 2006.
[16] Ami
Ginsburg, "What Did We Learn From the First Two Weeks of the
Second Lebanon War?" Hebrew, Ha'aretz, July 28, 2006.
Jonathan Nitzan e Shimshon Bichler Fonte:
http://www.globalresearch.ca/ Link 16.11.2006
Scelto
e tradotto per www.comedonchisciotte.org da
ALCENERO
| |
Questo Articolo proviene da comeDonChisciotte
- politica e informazione http://www.comedonchisciotte.org/site
L'URL
per questa storia è: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=2838
|